Viviana Navarra
Tre metri più in là
Intervista allo scrittore, regista e sceneggiatore romano.

I suoi libri hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo. Pagine cult che hanno fatto battere i cuori "tre metri sopra il cielo" ad intere generazioni di ragazzi e ragazze, poi diventate pellicole di straordinario successo da guardare e riguardare ovunque nel tempo. Per fermarsi, avvolgersi nella calda coperta delle emozioni, e ricordarsi che i sogni hanno sempre una unica età: quella in cui ci si sente invincibili.
A tu per tu con Federico Moccia, scrittore, regista e sceneggiatore romano classe
1963, fresco di laurea in Lettere e ora in libreria con una imperdibile serie di volumi dedicata ai più piccini, pubblicata dalla casa editrice Tre60 libri. La protagonista è irresistibile e il suo nome è Beniamina Wood.
Federico, il giovane Holden desiderava poter chiamare certi autori al telefono tutte le volte che gli girava. Lei quali autori chiamerebbe?
Tantissimi. Tutti quelli che mi hanno emozionato sin da ragazzo. Praticamente finirei il credito nel telefonino. Quando ero un ragazzo non frequentavo solo i compagni di scuola e quelli che giocavano a calcio con me o coi quali andavo in giro. Non mi innamoravo solo delle ragazze in carne e ossa. Non mi confrontavo solo coi miei genitori e le mie sorelle. Avevo anche altre ragazze, altre famiglie, altri amici. Si chiamavano Martin Eden,
Holden Caulfield, Huckleberry Finn, Weedon Scott, Alice, James Gatz, Momo, Caspian, Boka, Geréb, Nemecsek e molti altri ancora. I protagonisti dei libri che leggevo e che
amavo. In ognuno vedevo un pezzetto di me, com’ero e come volevo essere, a ognuno di loro facevo fare qualcosa che non mi riusciva e imparavo osservandoli. Non erano fatti di carta. Erano con me. Mi portavano in giro, mi facevano arrabbiare e ridere e qualche volta mi davano consigli su come conquistare una ragazza o combinarne qualcosa. Le mie storie preferite sono quelle di Paul Auster, Truman Capote, Jack London, Hemingway e Carver ma anche Thomas Pynchon, Donald Barthelme e John Barth. E amo moltissimo la letteratura sudamericana, intensa, passionale, estrema, sempre pronta ad avvolgermi con storie incredibili, penso ad esempio a Gabriel García Márquez di cui ho letto praticamente tutto. Ma anche Sergio Bambarén. Amo inoltre la grande letteratura americana, contemporanea e non, in cui spesso l’amore si intreccia alle tematiche sociali di un paese complesso, multiculturale, ricco di influenze diverse, che produce quindi testi diversificati, solidi, sempre in evoluzione.
Il libro più bello che ha letto.
Il primo di cui ricordo ogni sfumatura è “Martin Eden” di Jack London. Ho amato molto la storia di quel giovane marinaio che scopre la propria vocazione di scrittore, diventa famoso, ma finisce con l’autodistruggersi. Una parabola di vita che parla di amore, desiderio, tenacia, ambizione, riscatto, eccesso. Un personaggio, Martin, complesso e affascinante, crudo e intenso, che ci mostra fin dove può portarci l’amore nel bene e nel male.
Che cosa è per lei la bellezza in un libro?
Un libro è bello quando cambia qualcosa di profondo in te e si fa ricordare negli anni. Attraversa il tempo e le generazioni, diventando in futuro un classico, che non è sinonimo di vecchio o scaduto. Non solo, ti mette la voglia di rileggerlo nelle diverse fasi della tua vita. “Capisci di aver letto un buon libro quando giri l'ultima pagina e ti senti come se avessi perso un amico”, scriveva Paul Sweeney. In realtà per me non è un amico che perdi, ma che guadagni, perché ti permetterà sempre di viaggiare tra le sue parole, capaci ogni volta di trasformarti. Un buon libro è un mix micidiale di armonia e alleanza tra storia, stile, unicità e definizione dei personaggi. Una volta ho letto una regola particolare usata dallo scrittore inglese Madox Ford: aprire un libro a pagina 99 e leggere. Da lì si capisce la qualità del testo. Per il sociologo Marshall McLuhan la pagina invece sarebbe la 69. In entrambi i casi secondo me non è un buon parametro: come può un’unica pagina dare il senso del tutto? Senza contare che se un libro ha 70 o 100 pagine, sarà difficile fare questo gioco di valutazione. Non ci sono formule matematiche, metodi scientifici e certi, né griglie in cui incasellare tutti i libri per tirar fuori il parametro della bellezza. Non penso nemmeno che basti sempre e solo l’incipit per capire la bellezza di un libro. Certo, aiuta e intriga, se fatto bene, ma non è detto che il bello non appaia pagine e pagine dopo. Un sicuro elemento di bellezza, comunque, è dato dalla danza di intrecci tra la trama principale e le sottotrame, perché anche la nostra vita è così, un insieme vivace, complesso e incredibile di trame che ci modulano. Mi piace moltissimo scoprire dove mi porteranno gli autori che amo. Lego le loro storie alla vita di tutti i giorni, alle persone, i fatti, un momento normale del quotidiano. Leggendo molto si scopre sempre qualcosa di nuovo in se stessi, si accendono lampadine, si creano legami inattesi fra varie parti della nostra anima e tutto questo fa da motore alla creazione.
Tre hashtag per raccontarsi.
#costruireoggibeiricordiperdomani
La parola alla quale è più legato?
Naturalmente “amore”. L'amore è stato e sarà sempre il desiderio principale dell'uomo, il motore del mondo. Lo cerchiamo, lo viviamo, lo rimpiangiamo, ci incuriosisce, ci tormenta e ci fa sentire vivi. Amo l'energia che sa creare, come ci trasforma. Non siamo nati per essere soli, per chiuderci a riccio, per rifiutare gli altri. L'amore è sorriso. Anche quando si piange. E il sorriso è un valore: non significa solo incurvare le labbra verso l'alto, ma averlo dentro. Un sorriso nato dalla capacità di vivere serenamente la vita, senza invidie. L'amore poi è figlio dei tempi in cui vive e rispecchia la società. Oggi ci sentiamo tutti un po' "mono", poco inclini a cercare compromessi per costruire insieme, pronti a rinunciare subito alla prima difficoltà. Incertezze, dubbi, paura di riuscire a sostenere in tutti i sensi il futuro e a volte di perdere la propria libertà. Ma al di là delle epoche un rapporto funziona quando non si confonde la quotidianità con l'abitudine e la noia, quando si riesce a considerare ogni nuovo giorno insieme a chi amiamo una sorpresa, una possibilità. L'amore con il tempo si trasforma, ma non peggiora. Secondo molti invece finita la passione iniziale, quella che ti prende fino in fondo, tutto si appiattisce. E non è vero. Non si deve smettere mai di fare l'amore con la vita. Ecco il segreto, secondo me. Poi sono padre ed essere genitori cambia ogni prospettiva. Mette di fronte alla responsabilità di una vita che cresce e insieme cresci anche tu. Cerchi di trasmettere ai figli regole e strumenti per poter vivere al meglio la vita. Prima di tutto il rispetto, riconoscerlo agli altri e saperlo meritare per se stessi. Rispettare qualcuno significa ascoltarlo anche quando non siamo d'accordo con lui. Esistono milioni di punti di vista ed esperienze al mondo, storie, opinioni. Non possiamo pensare di trovare le fotocopie di noi stessi, non avrebbe senso. Confrontarsi con educazione e rispetto vuol dire crescere. Un altro grande valore è che siamo circondati dalla bellezza, dal valore, dall'amore, ogni giorno in ogni attimo e luogo, basta solo essere abbastanza umili da riconoscerli. Infine il senso di responsabilità: siamo liberi di agire come vogliamo, anche di sbattere la testa contro un muro, basta essere consapevoli delle conseguenze. Solo così possiamo dire di vivere davvero, di essere finalmente adulti. Spero di aiutare i miei figli e dare loro il bagaglio necessario per affrontare la vita senza subirla ma alla pari, pronti ad ammirarla e a viverla fino in fondo. A non evitare le responsabilità, a non far finta che il dolore non esista, a non aver paura della felicità. Mi auguro che sappiano sempre riconoscere un errore e, soprattutto, riuscire a rimediarlo. Che non abbiano la presunzione di non saper chiedere scusa e che abbiano la forza di dire "No" quando sentono che è necessario. Che non vadano dietro alla corrente solo per essere accettati e che non tradiscano se stessi. E che ricordino sempre che in ogni momento della vita potranno sempre cambiare idea spiegando agli altri il perché.
I suoi maestri, nella vita e nella professione.
Sicuramente mio padre mi ha influenzato moltissimo nella vita. La cosa più bella e importante che mi ha trasmesso è la sua esperienza. Con generosità e grande sensibilità mi ha permesso di conoscerlo anche come uomo oltre che come padre, di capire quello che mi sarebbe potuto accadere nella vita, come avrei dovuto affrontare successo e insuccesso, momenti in cui sei circondato da amici e momenti più difficili che inevitabilmente ti possono capitare. Poi mi ha insegnato ad amare le storie, avere voglia di raccontarle, essere il più possibile attento, stare al centro di quello che racconti, senza
distrarsi, non annoiare il lettore, di coinvolgerlo, di emozionarlo, di aprire passo dopo passo una scatola dopo l’altra, così da sorprenderlo, chiudendo un capitolo con la voglia di sapere cosa succederà. Ho amato il cinema fin da giovanissimo, andavo sempre a diversi cineforum da ragazzo e mi piaceva moltissimo vedere quei film che poi permettevano anche di capire meglio cosa volevano significare grazie al dibattito che seguiva la proiezione. Tra i primi film che ho visto sicuramente ricordo “Quel pomeriggio di un giorno da cani” diretto da Sidney Lumet, con Al Pacino. Un film bellissimo, d’azione e di critica sociale. Poi ho amato tutti i film di Ingmar Bergman e mi ricordo che andai giovanissimo a l’Aquila, perché c’era una rassegna di film e Sven Nykvist, maestro delle luci di Bergman, era ospite. Parlare con lui, ascoltare quello che raccontava di tutti
quei film che avevo visto, che mi avevano emozionato e in qualche modo mi avevano fatto crescere mi piacque moltissimo. Comunque ho amato tantissimo tutto il nostro cinema italiano, anche quello in bianche nero, il cinema di Pasolini, di Fellini, e anche i
film di Salce, come per esempio “La voglia matta” con Ugo Tognazzi e la giovanissima Catherine Spaak. In generale, amo tutti grandi registi senza preferire un genere all’altro, perché sono quello che sanno attraversare il tempo, le epoche, senza risultare mai
datati. Quello che conta per me è proprio la capacità di dare un taglio personale alle storie che si raccontano, di qualunque tipo esse siano, da quelle romantiche ai drammi più coinvolgenti, passando per la commedia e il thriller. Se devo fare qualche nome specifico, Alfred Hitchcock, Orson Welles, John Ford, Martin Scorsese, Buster Keaton, Frank Capra, Federico Fellini, Steven Spielberg, John Huston, Luis Buñuel, D.W. Griffith, Robert Altman, George Cukor, Woody Allen, Vincente Minnelli, Francis Ford Coppola, Stanley Kubrick, Billy Wilder, Roman Polanski, Tim Burton... ma sarebbe una
lista davvero lunga!
Quando ha scoperto il suo talento per la scrittura e come ha cominciato a esercitarlo?
Ogni storia di vita parte da lontano e tutti i passaggi sono importanti, specialmente quelli che nessuno vede e nessuno sa. Io scrivo da sempre. E quindi “Tre metri sopra il cielo” è uno dei tanti step (mi si perdoni il doppio senso!) di una passione che c’è sempre stata e che ha sempre cercato di manifestarsi. Fin da piccolo ero uno di quelli che appena vedeva una penna, un pennarello, una matita, li prendeva e iniziava a scarabocchiare prima e a scrivere in seguito. Usavo quaderni, diari, agende, anche uno scontrino e
pure una parete per la gioia dei miei genitori. Frasi, pensieri, piccole storie che mi inventavo. Anche a scuola facevo temi lunghissimi. Inoltre vedevo mio padre Pipolo (Giuseppe Moccia) al lavoro, un famoso sceneggiatore che, con Franco Castellano, ha scritto film che resteranno per sempre nel cuore degli italiani. Una scrittura genuina, divertente, vera e per questo duratura, anche quando sono cambiati i tempi. Perché i sentimenti fondamentali non hanno scadenza, non passano mai di moda. Guardando lui, ho sempre considerato la scrittura come una sorella, familiare, indispensabile, una forma di comunicazione spontanea e necessaria. Raccontare la vita, cercare di narrarla dal punto di vista dei sentimenti, senza girarci troppo intorno o filtrarle, è quello che mi dà più soddisfazione, anche perché mi mette in contatto con i lettori in modo spontaneo e immediato. È come se parlassimo la stessa lingua e questa semplicità me l'ha insegnata proprio mio padre. Per me è fondamentale comunicare nel modo più autentico possibile, dare il proprio punto di vista sincero sul mondo, così magari qualcuno, che non ha trovato ancora il modo di esprimere il suo, trovi soddisfazione. Non c'è quindi un vero e proprio "prima e dopo" essere scrittori, per me. Chi sente la scrittura come un'urgenza la sperimenta sempre, che sia su un foglio per poi metterla nel cassetto, oppure on line o pubblicando un libro. Se non fossi uno scrittore, sarei una persona che sogna di fare lo scrittore e cerca di realizzare questo sogno. E comunque racconterei storie, aneddoti ricordi, magari mentre lavoro, magari sarei un falegname, un operaio o un cuoco e racconterei qualcosa ogni tanto ai miei colleghi.
Com'è cominciata l'avventura di Tre metri sopra il cielo?
Per quanto riguarda “Tre metri sopra il cielo”, ero molto contento di aver scritto quel romanzo, perché per me scrivere è una passione, a prescindere da eventuali pubblicazioni. Mentre scrivevo, non ci pensavo. Mi bastava creare quella storia. Contava scriverla al meglio che potevo, con la maggior cura possibile. Solo dopo ho cercato un
editore. E tante case editrici mi hanno detto di no. Era il 1992. Mi piace raccontarlo, perché oggi in Italia molte persone che amano scrivere, pensano di aver fallito solo perché magari poi non trovano un editore che propone loro un contratto di edizione, con cessione dei diritti, percentuali relative ai diritti d’autore, anticipi e così via. E magari
abbandonano il sogno e considerano quello che hanno scritto solo una perdita di tempo o una dimostrazione di incapacità, qualcosa che non interessa a nessuno. Dopo i “No” che avevo ricevuto, andai in Via Cagliari, 46 a Roma. Lì c’era la sede della casa editrice “Il ventaglio” e alla fine il mio romanzo fu pubblicato a mie spese. Le 750 copie stampate andarono presto esaurite e il libro cominciò a circolare fotocopiato. In pratica, diventò virale ben prima che esistessero i social. Sembra una leggenda metropolitana, ma non lo è. Un libro che non era più un libro, eppure esisteva eccome e passava di mano in mano, come fosse un prezioso quaderno di appunti che gira tra studente e studente. Per me fu incredibile, una grandissima soddisfazione. I ragazzi romani continuavano a passarsi la storia di Step e Babi, rendendola eterna. Sembrava una specie di segreto raro, che viveva solo grazie alla voglia di leggerlo sottobanco. E alla fine, dopo dodici anni, quando cambiarono i contesti e le percezioni, quel libro, anzi, quelle fotocopie arrivate in mano a persone diverse, proprio per questa incredibile storia che per dodici anni ne avevano fatte fotocopie, decisero di farne un film e così fu stampato di nuovo un libro, edito stavolta da una grande casa editrice. E fu un successo assurdo. Il libro ha venduto milioni di copie, è stato tradotto in moltissimi Paesi del mondo. La genesi di “Tre metri sopra il cielo” mi ha insegnato la tenacia e anche il fatto che le favole bisogna scriversele
da soli, non si può sempre aspettare che lo facciano gli altri per noi. La vita ti
mette alla prova in mille modi, ti esalta, ti delude, ti sostiene, ti mette in discussione. Ma la sua lezione più importante è quella della resilienza, parola tanto amata e usata oggi non sempre in modo consapevole. Vuol dire affrontare un urto, una rottura, un dolore elaborandoli, guardandoli in faccia senza negarli, in modo da non rompersi definitivamente. A volte è più semplice, altre molto meno. I miei genitori mi hanno insegnato a essere umile e determinato. Cerco di ricordarlo ogni giorno in ogni occasione. Ho iniziato a scrivere perché avevo voglia di leggere una storia così come nessuno era mai riuscito a raccontarmela. Per questo è nato "Tre metri sopra il cielo".
Mi ha sempre colpito una citazione di Stephen King: “Perché gli scrittori
ricordano tutto, Paul. Specialmente quello che fa male. Denuda uno scrittore, indicagli tutte le sue cicatrici e saprà raccontarti la storia di ciascuna di esse, anche della più piccola. E dalle più grandi avrai romanzi, non amnesie. Un briciolo di talento è un buon sostegno, se si vuol diventare scrittori, ma l'unico autentico requisito è la capacità di ricordare la storia di ciascuna cicatrice”. A questo concetto ho unito quello di ricordare anche il senso di ogni sorriso e gioia provata, le volte in cui un attimo di felicità ha invaso tutto e quelle in cui ho fatto importante o ho aggiunto qualcosa di buono a me stesso. Avevo scritto il romanzo con tutto me stesso, ci tenevo. E quando tieni a qualcosa, hai paura, ma hai anche molta determinazione. "Tre metri sopra il cielo" ha insegnato a
me e anche a tutti quelli che scrivono – e sono tantissimi, fatto per me bellissimo e che invece per alcuni nel mondo editoriale sembra quasi rappresentare un problema – che si può pubblicare anche se un editore non crede in te, si può trovare il modo di far
arrivare la tua storia molto lontano. Da allora sono arrivati anche tutti gli
altri miei romanzi, i film e le traduzioni in tutto il mondo, con un successo
particolare nei Paesi di lingua spagnola che dura tutt’oggi. La mia aspirazione
resta quella degli esordi: far sì che persone di ogni età ridano, piangano, si
emozionino per quelle storie. E, quando accade, ne sono onorato e commosso..
Cosa fa sentire lei "tre metri sopra il cielo"?
La mia famiglia, le partite a calciotto e tennis e padel con gli amici, un bel film,
un libro coinvolgente, le novità improvvise di una giornata che mi fanno sorridere, qualcuno che sa riconoscere un errore e chiede scusa, due anziani che per strada si tengono per mano e sorridono. Tutte le volte che avevo pensato di non farcela e invece sì e quelle in cui ero certo di cavarmela per troppa convinzione e invece la vita mi ha teso uno sgambetto, tendendomi allo stesso tempo la mano per rialzarmi e il fatto che me ne sono accorto.
Lei ha prestato la sua penna, e il suo talento per la scrittura, alla letteratura, al cinema, alla televisione. Ma in quale di questi "luoghi" sente di essere veramente a casa e dove, tra questi, non vedere l'ora di tornare non appena una nuova storia bussa alla porta della sua immaginazione?
Sono tutte stanze della casa in cui amo stare. Akira Kurosawa diceva “Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica”. Quindi mi sento un po’ un contenitore. Siamo tre Moccia. No, non è delirio di onnipotenza! Siamo davvero tre: lo scrittore, il regista e lo sceneggiatore. Anzi, quattro, da quando sono diventato anche giornalista pubblicista. E conviviamo piuttosto bene, direi. Ognuno dei ruoli si completa nell'altro. E non potrei scinderli. Iniziai nel cinema nel 1982 a fianco di mio padre e di Castellano come assistente alla regia nel film "Attila flagello di Dio". Un po' come sarebbe accaduto per "Tre metri sopra il cielo", dieci anni dopo. Il film all'inizio fu snobbato dalla critica, ma fu amato dal pubblico e diventò oggetto di interesse da parte di collezionisti e appassionati del genere. È in pratica una specie di long seller. E quando nel 1986 passai alla Tv, fui uno degli sceneggiatori della prima stagione de "I ragazzi della 3ª C", una serie cult al
tempo. Poi arrivarono "College"; e le trasmissioni tv in cui fui autore, "Scommettiamo che...?, "I cervelloni", "Fantastica italiana", fino ai più recenti "Ciao Darwin", "Chi ha incastrato Peter Pan?", "Domenica in" e "Il treno dei desideri". Essere autore implica esprimersi in vari modi. Quando si parla di cinema, molte regole della narrazione sono comuni alla scrittura editoriale. Quando facciamo un film partendo dal libro, lavoriamo a riscrivere la storia narrata nel romanzo, scegliendo gli episodi più significativi a discapito di altri, proprio perché i tempi di un film sono diversi da quelli di una lettura. Quando leggiamo siamo noi a decidere il ritmo. Il regista soprattutto sa che dovrà misurarsi con quello che lo spettatore, che prima è stato lettore, si aspetta di
vedere sullo schermo. È come se, dopo esserci lasciati coinvolgere dalla lettura
del libro che avviene con tempi nostri e del tutto personali, ci si abbandonasse a
una serie di sensazioni che vanno oltre le pagine. Sceneggiarla significa “tradire” un po' il libro ed è inevitabile. Ma è un tradimento nella forma e non nella sostanza.
A noi tutti restano nel cuore certi libri, e certi libri soltanto. Cosa c'è secondo lei di così profondamente "nostro" in quelle pagine?
Un po’ come quando abbiamo parlato della bellezza dei libri, si ama ciò in cui ci si riconosce in qualche modo, anche quando una storia o un personaggio sono lontanissimi da noi. I libri, certi libri soltanto, ci parlano. Non avevamo fatto loro alcuna domanda, eppure ci rispondono. Danno un senso a un dolore, chiariscono un dubbio, definiscono una felicità, ci coinvolgono in un percorso, ci fanno ridere, arrabbiare, emozionare. Amiamo il narratore che ci convince e ci affascina, lo sentiamo vicino, gli crediamo. Amiamo i dettagli che sembrano nascosti, ma poi emergono in tutta la loro forza e spesso cambiano il corso della storia. Le pagine empatiche sono quelle che ci regalano punti di vista diversi e insoliti, che ci spiazzano, ci travolgono, ci commuovono, ovvero ci spostano da una parte all’altra delle nostre sicurezze e spesso le mettono in discussione. Un libro che ci piace non è consolatorio, non conferma quello che già pensiamo della vita, perché vorrebbe dire che ci lascia uguali a come quando abbiamo iniziato a leggerlo. Invece è come un fiume: l’acqua sembra sempre la stessa, ma quando ci entri più di una volta, non sarà mai uguale a quella che scorreva un istante fa.
L'ispirazione. Per lei, cos'è?
Arriva senza preavviso e sorprende. Può essere innescata da qualsiasi situazione, non ci sono regole o manuali che possano insegnare a crearla. È un misto tra la nostra predisposizione d’animo, la curiosità e la voglia di comunicare esplorando allo stesso tempo se stessi. Ma non basta. Mi piace la definizione che ne dette Gabriel García Márquez: “L’ispirazione non dà preavvisi”. Nuove storie sono sempre in arrivo, quando si tratta di me. Oltre ad alcuni progetti che mi vedono impegnato più sul lato imprenditoriale, narrare resta la mia priorità. Per farlo, cerco di ascoltarmi di volta in volta. Sarà sempre qualcosa in cui devo sentirmi a mio agio. Non serve a nulla mentire a se stessi e al pubblico, travestendosi in qualcosa che non si è perché si avverte e si perde la magia. Questo sicuramente è ciò che non mancherà nei prossimi libri. Quando si è trovata la propria voce è bello seguirla. Amo le nuove sfide ma mi piace che mi si possa sempre riconoscere, in qualche modo. E la mia “cifra stilistica” vorrei che fosse sempre la realtà come miglior fonte di ispirazione, se non l’unica. Mi lascio trasportare dai miei ricordi di
ragazzo e dalle storie che osservo e che mi vengono raccontate. Cerco di trovare
un filo rosso che unisca le varie generazioni e si chiama amore.
Da qualche anno si sta dedicando in particolare alla narrativa per bambini. Perché ha sentito il desiderio di rivolgersi ai più piccini?
Ho fatto il mio esordio nella narrativa per bambini con la serie animata di avventure di “Beniamina Wood”, uscita prima in Spagna e successivamente in Italia. Racconta di una cagnolina buffa e divertente che vive con amici e famiglia nella città di Bauville. Il primo capitolo della serie s'intitola Beniamina Wood e il mistero del Diamantosso. Volevo creare un vero e proprio piccolo “universo”, autonomo e variegato, in cui far vivere un nuovo personaggio divertente, con le sue storie, le avventure, i legami familiari, le amicizie, i sogni e molto altro ancora. Non un supereroe, ma una... Beniamina dei più giovani! Così è nata appunto Beniamina e mi è rimasta subito molto simpatica, per quel suo modo così semplice, diretto, genuino, vivace e pimpante di fare e pensare.
Mi sono avvicinato sempre più alla narrazione per i piccoli e per l’adolescenza grazie a tutte le letture che faccio con e per i miei due figli. Hanno due età diverse, sono un
maschio e una femmina e questo mi ha permesso di esplorare più punti di vista
e tutte le tipologie e le modalità di racconto da cui sono affascinati, dai libri ai fumetti, dal cinema al teatro. Ho avuto sin da subito l’abitudine di leggere loro a voce alta una storia ogni sera prima di andare a letto, ogni volta che era possibile, proprio come i miei facevano con me e mi è sempre stato molto utile. Mi ha fatto conoscere sin da piccolo tanti mondi diversi, tante esperienze.
I miei figli a loro volta mi raccontano le storie che hanno ascoltato magari a scuola, oppure quelle dettate dalla loro fantasia. Per noi le lettura insieme è una specie di rituale irrinunciabile, me tutti e tre amiamo anche molto leggere in solitaria, ognuno per conto suo. Così, partendo da ciò che amano di più, mi sono appassionato ai personaggi e alle storie che più li coinvolgono e alla fine è nata l’idea di Beniamina e di tutto il suo mondo, Bauville. I miei figli sono stati i primi, attenti, valutatori della prima storia. Appena scritta, gliel’ho letta per capirne le reazioni e hanno subito mostrato curiosità e voglia di
saperne di più, di conoscere l’avventura successiva. Mi hanno dato opinioni e
consigli che ho accolto volentieri. Mi ha sempre colpito una frase di Gilbert Keith Chesterton, in cui credo molto: “Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi”. Nelle favole tradizionali e moderne troviamo sempre strumenti per affrontare meglio quello che ci accade ogni giorno. Nel mondo di Beniamina c’è un po’ tutto quel che appartiene al mondo dei ragazzi di oggi. Lei, con le sue azioni e la sua capacità di ridere di se stessa, trasmette valori fondamentali come la determinazione, la capacità di superare le paure, l’importanza dell’amicizia e della famiglia, il coraggio nell’esporsi contro le ingiustizie, la tenacia nel realizzare un sogno. Accanto a Ben troviamo la sua famiglia, tre grandissime amiche,diverse tra loro e piene di sorprese, Sam Dog, l’amico del cuore di Ben, Hugo Oss, il bellissimo e avventuroso amore segreto di Beniamina e poi abbiamo Silvia Gold, ricchissima e dispettosa, con le sue due migliori amiche gemelle, sempre pronte a mettere il bastone tra le ruote a Beniamina e ai suoi amici. Oltre a loro ci sono tantissimi altri personaggi, amici e non di Ben, che danno vita a storie pazzesche che spero
divertiranno e coinvolgeranno i nostri giovani lettori. E chissà, magari anche i
loro genitori.
Cosa conserva, ancora oggi, del bambino che è stato?
Dice il saggio: sii l'adulto di cui avevi bisogno quando eri bambino. Invece per
me la regola è essere il bambino di cui il me adulto di oggi ha bisogno.
Conservo la voglia di stupirmi, la capacità di divertirmi al di là dell’età, di
ridere, scherzare, ma anche riflettere. E non ho più certe insicurezze d’allora.
L'intelligenza artificiale avanza con un passo impressionante provando a occupare sempre più spazio anche nel mondo delle cosiddette professioni intellettuali. L'umano-scrittore è destinato alla obsolescenza programmata?
Persone e tecnologia non devono essere nemici, ma procedere in sintonia. Siamo sempre in evoluzione e questo non ci deve spaventare. Mai nulla potrà sostituire, secondo me, l’imprevedibile guizzo umano nella creatività. Ci sarà sempre quello scarto di unicità che sorprende e che spiazza ogni algoritmo. E la tecnologia non potrà nemmeno mai togliere il gusto dell’attesa, perché anche l’oggi è fatto comunque di attese, oggi in cui siamo tutti iper connessi e a tempo zero e sembra che non ci sia più bisogno di aspettare niente e nessuno, perché tutti siamo teoricamente lì, a disposizione. Basta un click. Una notifica e subito ci siamo. Ma non è sempre così. Per fortuna. Le tecnologie sono uno strumento, non un ostacolo. E dobbiamo e possiamo imparare a usarle al meglio. L’amore ha le sue regole universali che vanno oltre le nuove abitudini. Sono un romantico che ha nostalgia del futuro. Perché vorrei scoprire quali sorprese riserverà l’amore al mondo, come riuscirà a cambiarlo ancora. Ben oltre le 24 ore e qualsiasi programma tecnologico possibile.
Grazie.